I migranti dimenticati che affogano nel Mediterraneo
Reportage in prima persona di un viaggio a bordo della nave di Medici Senza Frontiere impegnata nel soccorso dei migranti nel Mare Nostrum.
Testo, foto e video di Giuseppe Carotenuto
Voi conoscete l’odore della morte? A questa domanda, qualcuno potrebbe storcere il naso, trovarla di cattivo gusto, persino macabra, se fatta poi a luglio, quando in tanti saranno già in vacanza al mare a prendere la tintarella, sorseggiando un fresco mojito. Perché vi sto dicendo questo e cosa ha a che fare l’odore della morte umana con il mare? Lo scorso 7 giugno, ero a bordo della nave di ricerca e soccorso migranti Geo Barents di Medici Senza Frontiere, impegnata nella missione numero 58, durante la quale il team di MSF ha effettuato tre distinte operazioni. Dopo cinque anni - avevo già in passato documentato altre missioni - iniziavo a sentire la necessità di tornare a raccontare cosa stesse accadendo nel Mar Mediterraneo, anche alla luce dell’accordo firmato a Roma il 6 novembre 2023 tra Italia e Albania. Un progetto politico anti-migratorio che potrebbe paradossalmente causare l’aumento delle partenze dalle coste nordafricane, prima che questo venga avviato.
La documentazione dei viaggi dei migranti attraverso il Mar Mediterraneo è una questione che ormai interessa poco i media, alla ricerca di storie nuove, e per i quali le tragedie che occorrono durante le traversate tra il continente africano e le isole a sud della Sicilia, rappresentano una notizia “ripetuta”. Documentare queste operazioni significa spesso passare intere giornate in una ripetizione ordinaria, mentre di fronte a te hai solo il mare, la sua brezza e il suo profumo. L’inaspettato però ha un odore acre che mai mi sarei aspettato potesse sostituire l’odore del mare. Durante i giorni di navigazione verso la zona SAR (Search and Rescue), passavo qualche oretta sulla grande piattaforma adibita ad eliporto, all’aria aperta in compagnia del mare e in videochiamata con le mie figlie che ogni volta rimanevano estasiate dalla bellezza della nave su cui viaggiavo. Stare davanti al mare è una delle cose che più amo, sono nato vicino al mare e vivo in una città di mare. Quando sono in città, almeno una volta al giorno all'alba o al tramonto trovo il tempo per recarmi a guardare le onde. È un rito che mi mette di buon umore, mi rilassa, e ascoltarne il suono è per me una grande fonte d’ispirazione.
Dopo qualche giorno dopo tutto è cambiato. Il 7 giugno, dopo aver passato tutta la notte impegnato sui primi due soccorsi, il team di MSF mi ha comunicato che le operazioni di soccorso erano ufficialmente terminate e che la GB aveva ripreso la navigazione verso Civitavecchia, porto assegnato per lo sbarco dei naufraghi messi in salvo. Dunque con tutta tranquillità iniziavo a programmare il dopo missione. Ero sulla piattaforma a godermi il mio rito giornaliero, quando mi accorgo che dal bridge alcuni ragazzi del team scrutavano l’orizzonte con i binocoli. Una pratica inusuale quando la nave non è nella zona SAR. Preso dalla curiosità decido di raggiungerli. Una volta dentro non c’era bisogno di fare domande per capire cosa stesse accadendo. La tensione era palpabile ed altissima, tutte le persone presenti, compreso il comandante della nave, erano impegnate in mille operazioni, senza proferire parola. Tutto era diventato più chiaro quando una voce alla radio rompeva quel silenzio tombale: la voce confermava le coordinate e la presenza in mare di cadaveri. La chiamata radio proveniva dall'aereo da ricognizione Seabird, della ONG Sea-Watch, che in una prima comunicazione segnalava la presenza in mare di tre corpi senza vita, avvistati a circa 38 miglia nautiche a nord di Jansour (Tripoli). Dopo la mancata risposta da parte della guardia costiera libica, Seabird, stava chiedendo aiuto a Geo Barents per poter intervenire. Ottenuta l'autorizzazione dalle autorità italiane per il recupero dei corpi, scopriamo che la nave era già sulla rotta giusta per raggiungere le coordinate ricevute, ma ad una distanza di circa quattro ore di navigazione. Non mi restava che aspettare.
A poche miglia dall’arrivo sul punto indicato da Seabird, dalla GB è stato calato in mare Mike, un gommone con a bordo il team medico con tutta l’attrezzatura necessaria per il recupero dei cadaveri. Mike ci anticipava di qualche miglio mentre dal ponte della nave i ragazzi attaccati ai binocoli, continuavano a scandagliare onda per onda l’orizzonte. Mentre osservavo anch’io l’orizzonte con il teleobiettivo, mi sono accorto che Mike aveva arrestato la sua corsa e aveva iniziato girare lentamente intorno a qualcosa: avevano intercettato il primo cadavere. Poco dopo la notizia sarebbe arrivata via radio. Da quel momento, man mano che la GB si avvicinava a Mike, sentivo che qualcosa nell’aria stava cambiando, ma essendo concentrato a scattare le prime foto non gli davo troppa importanza fino a quando non sono stato completamente travolto dall’odore della morte che sempre di più si sostituiva a quello del mare. Continuavo a scattare, ma la domanda che mi ponevo continuamente era: «come è possibile che, in un mare così aperto e grande, prevale così tanto l’odore della morte? Quante persone sono davvero morte per renderlo così persistente da sostituire la brezza marina?» La risposta sarebbe arrivata di lì a poche ore, passate a contare i morti. Dopo cinque ore di lavoro senza sosta, il team medico a bordo del rubber Mike, portava a termine una delle missioni più difficili della loro vita in mare, con il recupero di undici cadaveri in avanzato stato di decomposizione. Undici cadaveri, undici esseri umani, undici naufraghi, undici persone alla ricerca della libertà, di una vita migliore, rimaste vittime di un naufragio probabilmente fantasma, destinato a diventare l’ennesima strage di migranti nel Mediterraneo. Soffocata da un mare d’indifferenza mediatica, la notizia seppur rilanciata da agenzie e telegiornali, non era destinata a diventare una news principale, ma condannata a restare derubricata a urlo inascoltato delle ONG. Un urlo, sotto forma di domanda, che successivamente all’arrivo nel porto di Genova, l’11 giugno, il team di MSF aveva trascritto in uno striscione di protesta: «Europe… How many more?» (Europa… quanti altri ancora?). Lo striscione, era composto da sacche per cadaveri e undici giubbotti salvagente penzolanti con sotto scritti i nomi dei migranti morti: #1, #2, #3, #4, #5, #6, #7, #8, #9, #10, #11.
La scelta di assegnare il porto di Genova e non quello di Civitavecchia, a oltre 650 miglia nautiche, ha gettato nell’ulteriore sconforto i 165 naufraghi sistemati nel ventre di ferro della nave che, dopo aver assistito anche loro al recupero dei cadaveri, pianto e pregato per loro, vedevano per la prima volta dopo giorni di navigazione in mare aperto, un lembo di terraferma, pensando che fosse la destinazione, quel primo porto sicuro di cui le leggi internazionali del mare parlano. Purtroppo non era così ed è toccato ancora una volta allo staff di MSF, in particolare ai mediatori culturali, spiegare che quella non sarebbe stata la loro destinazione finale, ma che viene utilizzato per indicare coloro che viaggiano senza documenti: “harraga”. Per i cadaveri, invece, l’unico segno di riconoscimento era il numero, anticipato da un cancelletto, scritto con un pennarello nero su sacche in plastica bianche che riflettevano il sole quasi ad accecare la vista.
A largo di Lampedusa, in attesa dell'arrivo della guardia costiera, il ponte della Geo Barents si faceva sempre più rovente. Un team dell’equipaggio si preparava ad effettuare le operazioni di trasbordo dei cadaveri, dotati di tute e mascherine di protezione, nell’inutile tentativo di attenuare l’odore della morte. Da lì hanno trasportato le sacche estratte da un container frigo, sistemandole su barelle di salvataggio, vincolate alla fune di una gru e infine calate con grazia dal cielo, nuovamente verso il mare. Questa volta ad afferrarli e sistemarli a bordo di una motovedetta, c’erano le braccia tese degli uomini della Guardia Costiera Italiana. Intanto vengo a sapere da un’agenzia di stampa, che ad attendere le salme al molo Favarolo c’era il Sindaco di Lampedusa. Le sue dichiarazioni si aggiungeranno all’urlo inascoltato delle ONG di quei giorni. «Sono al molo Favaloro ad accogliere le salme con la fascia tricolore. In questo giorno particolare, in cui scegliamo i nostri rappresentanti per l'Europa, sono venuto qui al molo» ha detto Filippo Mannino «per ricordare all'Europa intera, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che è l’Italia, e Lampedusa in primis con i suoi abitanti e con le forze di soccorso, a dare a queste persone la dignità di esseri umani». Nel 2024, un’isola come Lampedusa, la “porta d’europa” con una comunità votata da sempre all’accoglienza e al turismo, mancano strutture sanitarie all’altezza della situazione, inclusa una camera mortuaria in grado di ospitare le undici salme.
Dopo aver passato quattro giorni a tirare a lucido lo stivale, da Lampedusa fino a Genova, la mattina dell’11 Giugno i 165 naufraghi a bordo della Geo Barents hanno potuto toccare nuovamente terra. Nei giorni che precedevano l’arrivo a Genova, mi recavo spesso nello shelter-deck, dove alloggiavano i 165 naufraghi migranti. Un giorno mentre ero lì ad osservare la lunga scia bianca che la nave si lasciava dietro, si avvicina a me un ragazzo e prendendomi completamente alla sprovvista mi racconta: «Io con il mare ho chiuso. Vengo dall’Eritrea, lì facevo il camionista e sono partito dal mio paese con l’idea di raggiungere l’Inghilterra, ma per raggiungerla dovrò attraversare di nuovo il mare. In Libia, ho sofferto in silenzio in prigione. Ho tentato il viaggio sei volte, ogni volta venivo rispedito indietro dalla guardia costiera libica e messo nuovamente in prigione. Questa volta è andata bene e arriverò vivo in Europa, ma io con il mare ho chiuso». Questo racconto dimostra ancora una volta quella del Mediterraneo Centrale sia la rotta più mortale per i migranti, a causa della mancanza di un numero adeguato di imbarcazioni di soccorso. Ciò fa riflettere ancora una volta sulla decisione delle autorità italiane di non assegnare alle navi delle ONG il porto italiano più vicino al punto di soccorso, ma porti a più di mille miglia nautiche dalla zona SAR. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), tra il 1° gennaio e il 1 giugno 2024, 282 persone sono morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo Centrale. Altri 449 sono stati registrati come dispersi. Secondo l’OIM, nello stesso periodo sono stati intercettati e riportati in Libia un totale di 7059 migranti. Lo dimostra ancora una volta quello che è accaduto a distanza di qualche settimana, la notte tra il 16 e 17 giugno scorso al largo del Mar Jonio, un'imbarcazione partita dal porto di Bodrum in Turchia con circa 67 persone a bordo, di cui 26 minori, è naufragata a circa 120 miglia dalle coste della Calabria.
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