Delle Pene d'Inferno, Popcorn per gli Spettatori
A Napoli non si parla d'altro che della scultura di Gaetano Pesce. Un Pulcinella che sembra un fallo e che già è diventata la meta più "instagrammata" della città.
Prima che inizi la lettura di questa prima uscita di Poster Napoli, cogliamo l’occasione per presentarti questa sezione. Da Napoli e da altre città italiane piccoli gruppi di giornalisti indipendenti, scrittori e intellettuali costruiranno un modello di giornalismo comunitario, all’interno del progetto Poster. Se ancora non sei iscritto alla newsletter è il momento di farlo.
Testo e foto di Deborah D’Addetta
Pare che Piazza Municipio sia diventata la corte dei miracoli di Napoli. Dopo la Venere degli stracci di Pistoletto sembrava impossibile far indispettire ancora di più l’opinione pubblica, e invece è proprio quello che è accaduto con l’installazione site-specific Tu sì ’na cosa grande, il Pulcinella stilizzato di Gaetano Pesce, artista ligure dalla cifra stilistica provocatoria e radicale. L’opera si inserisce nel programma di Napoli Contemporanea 2023-24 ed era originariamente pensata per la Rotonda Diaz. L’artista è venuto a mancare lo scorso aprile, dunque la messa in opera dei bozzetti non è stata eseguita da lui in persona. È importante sottolinearlo visto che, tra il dire e il fare, c’è di mezzo un fallo.
Avete capito bene: in questi giorni si parla ovunque della forma dell’installazione che è esattamente quel che sembra, ovvero un fallo. La struttura cilindrica, rivestita da una dubbia casacca di Pulcinella, appare come un pene eretto acefalo, accompagnata da un’altra scultura di due cuori rossi trafitti da una freccia. Secondo le parole della curatrice Silvana Annicchiarico (testualmente): «Da un lato, vi è la rappresentazione della crisi del potere maschile, un potere ormai stanco che si sta esaurendo sotto il peso della sua stessa rigidità. Dall'altro, vi è l'affermazione di una forza femminile che, attraverso la sua capacità di adattarsi e di rigenerarsi, offre una possibile via di uscita da questa crisi». La forza femminile starebbe nel vestitino rosa e nei due cuori (due, non uno, com’è scritto nel pannello descrittivo) nonché - e cito ancora testualmente - nel «collo dell’installazione», che è «anche il cono del vulcano dal quale fuoriesce la parte più duttile e femminile». E cioè? Quale sarebbe questa parte duttile e femminile? La luce che rischiara le tenebre? A me pare tutto un minestrone di cose buttate a casaccio, forzate e non rispondenti a ciò che vediamo. Il sindaco Manfredi poi, tentando di porre una pezza a colore peggiore del buco, ha dichiarato: «Se i napoletani ci vedono un’opera fallica che male c’è? È un inno alla vitalità». «Se», credo il punto stia tutto lì, nell’ipotesi: o il sindaco crede che i napoletani siano degli idioti oppure, anche lui, non sapeva che pesci prendere.
Qui il problema non è che l’opera sembri un pene: l’intento provocatorio è palese – dalla forma, al titolo dell’opera, al richiamo di una sessualità fluida e apotropaica (portafortuna) della maschera di Pulcinella, ma la cosa irritante è che viene a mancare lo scopo stesso dell’arte contemporanea provocatoria, cioè di creare un vero dibattito. A differenza del caso della Venere degli stracci di Pistoletto o della Montagna di sale di Paladino, la polemica qui verte solo sulla constatazione ovvia dell’ovvio, cioè che sembra un fallo. Se vogliamo chiamare questo un dibattito, allora – ed è proprio qui che sta la rogna – tacciamo i napoletani di grettezza mentale, pochezza intellettuale e tricchebballacche. Perché, ma sì, tanto i napoletani sono ironici, la prendono sul ridere, no? La retorica di Manfredi, che si parli bene o male purché si parli, ha stancato: per una volta si può parlare bene di qualcosa? O dobbiamo sempre svilirci e fare la figura dei pagliacci? Perché dare modo all’opinione pubblica di reiterare una narrazione che vede la città frivola e salottiera, e mai politicamente impegnata, colta, piena di ricchezze e cose da dire?
Io non contesto l’opera: non mi interessa che sia un pene, né mi scandalizzo. E non mi interessa nemmeno che l’opera sia diversa dai disegni originali (anche se sarebbe un’offesa alle volontà dell’artista). Io contesto il fatto che l’arte e il dibattito vengano messi in ridicolo dall’ilarità generale: che quel cilindro rappresenti un Pulcinella non importa a nessuno, però gli ovvi e legittimi sghignazzamenti annullano ogni possibilità di discussioni mature circa la figura della maschera, la sua storia, lo stato della sessualità, il lavoro dell’artista. Parliamo di questo, piuttosto, non del fatto che un pene sembri un pene. La campagna di comunicazione che vi è stata fatta intorno è ridicola: non c’è alcun intento di superare il patriarcato né di celebrare, come insiste la curatrice, la vittoria del femminile sul maschile. Se il femminile, per lei, è una casacca variegata di rosa e due cuori che sembrano culi, allora siamo messi male. Inoltre, se il primo cittadino non corregge il tiro, insistendo sulla necessità di approfondire l’opera e l’artista piuttosto che sciorinare banalità, cosa pretendiamo dalle persone comuni?
Quello che mi fa arrabbiare è che, per l’ennesima volta, restiamo fossilizzati nell’immagine di una città superficiale e puerile, quando avremmo tutto il diritto e i mezzi per invertire la tendenza. E la colpa non è della gente né della città, ma di chi le governa.
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Deborah D’Addetta, è nata in Puglia nel 1986, vive a Napoli. Fa parte del collettivo Spaghetti Writers, per cui scrive racconti ed è redattrice, recensisce libri per Critica Letteraria ed è contributor di varie testate, tra cui Italy Segreta, Mar dei Sargassi, City News – Napoli Today. Molti suoi racconti e scritti di natura saggistica sono stati pubblicati su riviste letterarie. Esordisce a maggio 2024 con il romanzo “Maleuforia”, edito da Giulio Perrone Editore.
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L'Ubu Re di Bob Wilson: ritratto dell'idiota da cucciolo.
Di Lucio Carbonelli
Artista visivo e teatrale, narratore di luce e silenzio, Robert Wilson dice che la cosa più importante di un’opera è la superficie, la quale deve essere accessibile a tutti, bambini e adulti, appassionati e spettatori occasionali, poi verrà l’interpretazione, se verrà. Aprire gli occhi, guardare e sentire, poi immergersi.
In tre giorni di metà ottobre Robert WIlson ha messo in scena, nella cornice del Campania Teatro Festival 2024 di Napoli, l’Ubu Re di Alfred Jarry - rivisto attraverso gli occhi e l’arte di Joan Mirò - al Galoppatoio della Reggia di Portici, uno spazio immerso nel verde e affacciato sul mare. Wilson parla al pubblico durante un dialogo con Ruggero Cappuccio, direttore artistico del Campania Teatro Festival, racconta e spiega, declama versi, rievoca aneddoti personali.
Più che uno spettacolo teatrale o un’installazione d’arte visiva, l’Ubu wilsoniano è una performance. Il pubblico entra in sala a sipario aperto, gli viene offerto un palco ingombro di fogli di giornale appallottolati, le luci accese a illuminare personaggi immobili, dipinti di bianco, nero, rosso. L’attacco è stordente e abbagliante, un rumore distorto rompe il silenzio per qualche minuto (come se poi esistesse davvero un silenzio assoluto), per risvegliare il tableau vivant dal torpore, attraverso un dolce piano che racconta di un giorno perfetto? Un’androgina figura di colore si fa strada dal pubblico al palco, calpestando i fogli di giornale e dando inizio alla storia.
Wilson racconta che ha cominciato a fare teatro per caso, in seguito a un particolare episodio della sua vita: camminava per strada quando all’improvviso si ritrovò davanti un poliziotto che stava per manganellare un ragazzino di colore, lui prese per un braccio il poliziotto e all’invito di farsi gli affari suoi rispose che quelli erano affari suoi. In seguito adotterà il ragazzino di colore, ragazzino che scoprirà essere sordo e con cui quindi svilupperà un particolare metodo di comunicazione, producendo suoni con la bocca e battendo il piede a terra: ecco nato il suo teatro.
La figura di cui sopra fa pensare al ragazzino nero perduto nel mondo, una persona che diventa punto di contatto tra il pubblico e Wilson. I personaggi prendono vita e raccontano la propria storia attraverso movimenti, azioni e una voce che più che dalle loro bocche sembra provenire da un altrove interno e profondo. Si uccide un re, ma la guerra che ne scaturisce non sembra essere una soluzione migliore: l’idiozia regna sovrana e infinita davanti a noi, ormai dovremmo esserci abituati.
Sembra di guardare un cartone animato muto, un cabaret in salsa surrealista, come dice il maestro non è importante interpretare, l’importante è vedere, l’arte è questa: tuffarsi nella tana del bianconiglio. Nelle file davanti, una bambina guarda assorta il ballo grottesco delle buffe figure che si dispiega davanti ai suoi occhi, non mostra segni di insofferenza, non si alza, non piange, non vuole andare via. Happy as a chappy, come dice la canzone. Al di là di qualsivoglia recensione critica o disamina accademica, può esserci un complimento migliore?
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Poster è un progetto di Reversocollettivo.
Questa uscita è coordinata dalla direzione editoriale di Claudio Morelli
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